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La presentazione dei lavori di restauro della Grotta degli animali
Passeggiate d'autore: "Claudio Tolomei, umanista del Cinquecento"
Andrea de Rosa
Il presidente della Repubblica nella Sala delle Pale

Ma siamo proprio sicuri che la lingua della ricerca sia solo l’inglese?


Ecco un’analisi del Presidente dell’Accademia della Crusca che fa scoprire che non è così, utilizzando dati ufficiali dell’Anvur

 

Marzo 2018

Claudio Marazzini

 

Roger Abravanel, sul “Corriere della sera”, offende i ricorrenti, vincitori ormai di due procedimenti giudiziari, sgraditi ai talebani dell’inglese, e poi suggerisce di imporre l’inglese anche agli umanisti. Cercheremo di mostrare che cosa non funziona nel suo ragionamento, e verificheremo non solo la necessità dell’italiano in una didattica aperta al plurilinguismo, ma anche quale sia la presenza reale e indiscutibile della nostra lingua nella ricerca delle università.

 

Un articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” del 27 febbraio 2018, scritto da Roger Abravanel, ingegnere, docente universitario, consulente di attività produttive, membro di consigli di amministrazione, autore del best seller Meritocrazia. Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto, editorialista del “Corriere”, collaboratore della ministra Mariastella Gelmini nel "Piano nazionale per la qualità e il merito" (traggo le informazioni da Wikipedia), ha rinfocolato la polemica sulla vexata quaestio del rapporto tra italiano e inglese nell'università. Lo ha fatto in maniera molto polemica, suscitando l'irritazione dei professori ricorrenti, già vincitori della causa di fronte a ben due Tribunali della Repubblica.

 

Poca dimestichezza con il diritto (e il galateo)

 

L’attacco ha suscitando la reazione dell’avvocata di quei professori, Maria Antonietta Cabiddu, che ha scritto una lettera al direttore del “Corriere” chiedendo di esercitare il diritto di replica. Alla professoressa Cabiddu è parso particolarmente offensivo che il professore Abravanel sentenziasse che i professori ricorrenti resistevano solo in quanto incapaci di usare a dovere l'inglese: “Per proteggere i cento docenti con poca conoscenza dell’inglese che hanno fatto ricorso, i magistrati sostengono…” – egli scrive. Alcuni dei ricorrenti possiedono addirittura PhD e master acquisiti in America, e hanno nel curriculum soggiorni in paesi anglosassoni. Facile offendere in questo modo, dunque, trascinati più dalla retorica che dall’informazione oggettiva, screditando in partenza i sostenitori di tesi avverse, negando in via prioritaria che vi possa essere buona fede nei difensori dell’italiano, cioè che possano davvero pensare che la lezione non in inglese, almeno per alcune discipline, sia preferibile per motivi oggettivi, per un reale vantaggio didattico, per una migliore aderenza alle fonti. Negare le esigenze specifiche delle discipline è, del resto, una delle reazioni più costanti dei sostenitori dell’inglese integrale, come vedremo meglio tra poco.

La professoressa Cabiddu nota che il prof. Abravanel, nella conclusione dell’articolo, in una frase ripresa da un neretto di titolo a mezza pagina, afferma: “se [la sentenza] sarà attuata” lederà il buon diritto degli studenti. Giustamente l’avvocata, donna di legge, si stupisce che un professore di ingegneria abbia dubbi sul fatto che le sentenze siano da attuare. Ma lasciamo questo dibattito agli esperti di diritto. Noi non entreremo in questi argomenti, né ritorneremo su discorsi già mille volte ripetuti relativi all’internazionalizzazione, alle forme diverse in cui essa si può realizzare, con una lingua sola o con forme di plurilinguismo. Non ribadiremo più una cosa pur vera e sacrosanta, cioè che nessuno intende far guerra all'inglese, a differenza di quanto vogliono far credere al mondo i contestatori della sentenza. Semmai noi reagiamo contro coloro che volevano e vogliono bandire l'italiano. Ho già ripetuto più volte che occorre distinguere gli aggressori e gli aggrediti, e non si può barare su questo punto.

 

Suggerimenti (non richiesti) agli umanisti

 

Però ora vorrei trasportare la polemica fuori dal piano strettamente giuridico, che, per la verità, non è nemmeno competenza diretta dell'Accademia della Crusca, dal piano dell'amministrazione accademica e della gestione del marketing relativo al reclutamento di un gran numero di studenti (argomento che è tornato più volte nelle discussioni). Infatti mi ha colpito un capoverso dell'intervento di Abravanel nel quale si tocca materia più squisitamente culturale, e non lo si fa soltanto intervenendo sulle esigenze della scienza “dura” o della tecnica applicata, ma invece si invade direttamente il campo della cultura umanistica.

Credo sia il caso di riflettere seriamente su questo capoverso, per ragionarci sopra pacatamente, e per verificare se esiste qualche plausibile risposta​.

Riporto il testo in questione, estraendolo dal contesto. Scrive Abravanel:

 

Il Consiglio di Stato sostiene poi che «l’insegnamento in lingua inglese è lesivo della tutela del patrimonio culturale italiano». Purtroppo in materie come la fisica, le scienze, l’intelligenza artificiale, l’inglese sta diventando un linguaggio universale, sostituendosi lentamente alle altre lingue, che perdono la capacità di esprimere i concetti più recenti. Non sarà una lezione in italiano al Politecnico a fare chiamare «buchi dei vermi» i «wormholes» (la caratteristica spazio-temporale che è una scorciatoia da un punto dell’universo all’altro). Non si tratta di usare il termine «rete» al posto di «network», ma della impossibilità di trovare termini italiani che si avvicinino alla nuova terminologia di scienza e innovazione ormai totalmente in lingua inglese. Forzare l’utilizzo dell’italiano dove il linguaggio del progresso scientifico è solo in inglese porterà a continuare a depauperare il nostro patrimonio del sapere, accelerando una tendenza in atto da anni. Incidentalmente, questo vale anche nelle materie umanistiche. Non si può studiare il Rinascimento artistico italiano senza avere letto Bernard Berenson e nessuno meglio di Anthony Gibbons [sic] ha raccontato lo sviluppo e il declino dell’impero romano.

 

Traducibilità e scambi tra culture: non a tutti piacciono

 

Vediamo la questione terminologica. Wormholes: perché non si potrebbe utilizzare il corrispondente italiano di un termine metaforico così trasparente? La storia della cultura scientifica è ricca di calchi del genere. Quando Galileo coniò il tecnicismo macchie solari, l’espressione ebbe fortuna, tanto che oggi gli astronomi scrivono in inglese utilizzando il calco sunspots, che in francese è taches solaires, manchas solares in spagnolo. Queste parole corrono come internazionalismi, costituendo un patrimonio comune che allinea le varie lingue, le arricchisce e le rende permeabili. Lo sforzo della traduzione è sempre un approfondimento concettuale, e così si è formato il lessico scientifico per secoli. Si tratta di un fenomeno rilevante e positivo, che sarebbe improvvido fermare d’autorità, vietando l’uso di una risemantizzazione come quella di “buchi dei vermi”, che non ha nulla di impossibile, e che anzi a me pare auspicabile per mantenere l’italiano al passo. Non mi soffermo su “Rete/Network”, perché in questo caso la coesistenza è già nei fatti. L’Oxford Dictionary attribuisce a network questi significati:

  1. L’incrocio di linee orizzontali e verticali.
  2. Un gruppo o sistema di interconnessioni
    1. Per strade, ferrovie ecc.
    2. Per un gruppo di persone che si scambiano informazioni.
    3. Per stazioni interconnesse.
    4. Per computer interconnessi.
    5. Per un sistema di connessioni di conduttori elettrici.

Come si vede, le accezioni tecniche del significato n. 2 sono già tutte perfettamente presenti in italiano, e non creano alcun problema, ma semmai un arricchimento.

Un’eventuale forzata eliminazione delle occasioni in cui la terminologia inglese si converte in terminologia italiana costituisce dunque una spinta nella direzione dell’impoverimento della nostra lingua, tra l’altro insensata, perché non si tratta di abolire la parola originaria, ma semmai è interessante cogliere le opportunità del nuovo anche nella lingua nazionale, per mantenerla al livello delle altre; facilitando lo scambio plurilingue, gli equivalenti si costruiscono mediante il medesimo processo metaforico o di arricchimento semantico, per cui a Network e Rete si affiancheranno Réseau francese e Red spagnolo. Perché dovremmo combattere questo processo prezioso, opponendoci ad esso? Per risparmiare tempo? Per escludere una parte della popolazione dal sapere? Per superare la confusione della Torre di Babele? Per omologare tutto e tutti? Non è meglio ricordare che la traduzione è una componente preziosa del pluralismo culturale, e che questo pluralismo ha sempre arricchito la ricerca e il rapporto tra i popoli?

 

Berenson, Gibbon, il monolinguismo e la bibliografia

 

Ma il bello viene ora. Perché Abravanel non si limita a spiegare il punto di vista di un tecnico o tecnologo, ma invade il campo della ricerca umanistica, gettando sul tappeto il nome di Berenson e Gibbon. Qui davvero gli esempi scelti non potevano essere peggiori. Infatti è vero che i bellissimi libri di Berenson sono in inglese, e anche sono largamente tradotti, ma il personaggio è proprio la negazione del monolinguismo a cui si ispira Abravanel: Berenson, quando decise di studiare l’arte italiana, venne in Italia, dove trascorse gran parte della vita. Girò per l’Italia per vedere direttamente le opere d’arte di cui parlava. La sua villa, I Tatti di Firenze, è luogo di incontro internazionale, oggi è gestita dalla Harvard University. Molti americani possono contare su I Tatti per avere un rapporto con Firenze e con l’Italia, anche se questo non vuol dire che si debba studiare il Rinascimento solo in inglese, o che non si debbano più leggere i libri di Garin o di Firpo perché in italiano. Quanto a Gibbon, per scrivere di Roma, si preoccupò di padroneggiare sia il latino sia il greco. Insomma, sono esempi che portano, inevitabilmente, molto lontano dal monolinguismo a cui si ispira Abravanel, e semmai ci mostrano l’utilità dello scambio e della comunicazione linguistica tra idiomi diversi. Del resto, mi pare che l’errore più grave del passo dell’articolo del “Corriere”, un errore davvero grossolano, sia la confusione tra l’accesso a una bibliografia internazionale e la scelta della lingua per far lezione all’università. Chi ha mai detto che non si debba leggere la bibliografia in lingue estere? Ci mancherebbe. Quindi è inutile sfondare porte aperte e invocare esempi senza relazione con i fatti.

 

Un esempio volutamente ignorato: l’Accademia di Architettura di Mendrisio

 

Come si è visto nelle recenti discussioni, gli avversari della sentenza del Consiglio di Stato, in realtà avversari in misura ancora maggiore della sentenza della Corte Costituzionale da cui la sentenza del Consiglio di Stato automaticamente discende, si ostinano a far finta di non capire, e travisano i dati oggettivi: insistono, non so se per incapacità di comprendere o per spirito di parte, nel sostenere che la sentenza vieta i corsi in inglese. Costoro giocano in maniera equivoca sul doppio significato della parola “corso”, che può voler dire “corso di laurea” o “corso di una determinata disciplina”. Una determinata disciplina può essere insegnata tranquillamente in inglese anche dopo le sentenze. Un corso di laurea, invece, non può abolire l’italiano alla chetichella e d’autorità, senza che siano state verificate determinate condizioni. In realtà, l’irritazione sembra nascere dall’impossibilità di estromettere di forza l’italiano dall’uso nelle università. A nulla sono serviti gli esempi portati per spiegare che proprio in una prospettiva internazionale l’italiano ha uno spazio vitale utilissimo. Tra questi esempi, vorrei citare quello, estremamente istruttivo, di Fulvio Irace, professore ordinario di Storia dell’architettura proprio nel Politecnico di Milano. Irace, uno dei professori che ha accettato di passare all’inglese nel Politecnico, dove insegna, in un articolo sulla pagina di “la Repubblica” di Milano, il 31.1.2018, ha spiegato che a Milano fa lezione in inglese, ma all’Accademia di Architettura di Mendrisio, in Svizzera (centro di eccellenza noto a livello internazionale) gli è espressamente richiesto di tenere in italiano i corsi, rivolti a un pubblico internazionale. Ovviamente i talebani dell’inglese hanno ignorato questo interessante esempio. L’italiano sta di casa meglio in Svizzera che in Italia, ahimè. Del resto in Svizzera è lingua nazionale, in Italia no: è già tanto se lo si accetta come lingua ufficiale…

Uno degli argomenti invocati per estromettere l’italiano, senza condizioni, è l’assoluta egemonia dell’inglese nella ricerca. Questo argomento viene ora fatto pesare anche per le scelte degli umanisti, come  abbiamo visto nel passo di Abravanel, ma come emerge ormai anche in altri interventi sviluppati per iscritto e a voce dopo la pubblicazione delle sentenze, ad esempio in quello di Irene Tinagli in “Zapping” del 1 febbraio 2018, secondo la quale un corso su Michelangelo in cui si utilizzi la lettura delle Vite di Vasari è più efficace se condotto in inglese (anche se le fonti sono in italiano del Cinquecento).

 

La lingua della didattica, della ricerca, degli scambi internazionali, e del PRIN

 

Ma attenzione: ora cambieremo argomento. Non parleremo più di didattica, ma proprio di ricerca. Ci sposteremo cioè in quello spazio sublime in cui si dà per scontato, da parte di alcuni, che l’italiano non abbia più ragione di essere, e da cui impropriamente si traggono argomenti ritenuti fondamentali per dedurne la necessità di abolire di forza l’italiano nella didattica. Ma davvero l’italiano non esiste più nella ricerca, con piena convinzione del MIUR? Non dimentico che la ministra Fedeli, dopo che il bando PRIN 2017 ha marginalizzato l’italiano (previsto invece come “ufficiale” nei bandi PRIN  2012 e 2015), ha risposto alle mie rimostranze affermando che l’inglese è “la lingua veicolare della comunicazione internazionale fra ricercatrici e ricercatori”. Certo, lo è, ma la lingua dipende dalle situazioni, dagli scopi e dal contesto disciplinare, specialmente quando ci si riferisce a “domande di ricerca di interesse nazionale”, dove non vale solo la regola delle relazioni internazionali. Per capirci: il Ministero dell’interno non usa sempre la stessa lingua del Ministero degli esteri. Ma per rispondere in maniera più circostanziata, in riferimento alla reale situazione delle Università, faremo ricorso ai dati ufficiali dell’Anvur.

* * *

 

Il Politecnico di Milano, l’Anvur e i punti

 

L’Anvur è un organismo che non tutti amano, cosa comprensibile, visto che giudica con metodi complicati l’università e gli enti di ricerca italiani. Questa è la sua funzione. Molte volte accade che l’uso dei dati Anvur sorprenda: per esempio, un recente bando per il finanziamento Industria4.0 ha creato non poche polemiche. In sostanza si trattava di questo, come riporta on line “Il Corriere della Sera – Università”: per partecipare alla gara, i dipartimenti interessati dovevano rientrare nel primo quartile (così dicono gli esperti di statistica) della classifica sulla qualità della ricerca stilata l’anno scorso dall’Anvur. Una serie di dipartimenti del Politecnico di Milano, stando alla valutazione della ricerca condotta da Anvur, non poteva vantare questa condizione di eccellenza, nonostante la familiarità con l’inglese. Chi ne vuole sapere di più legga la pagina di Roars: https://www.roars.it/online/calenda-affonda-i-politecnici-di-milano-e-torino-ma-anche-pisa-sapienza-e-federico-ii-con-laiuto-di-anvur/.

A noi, però, non interessa questa valutazione di qualità, in cui non entreremo. Ma la rilettura dei ricchissimi dati forniti da Anvur ci fornisce una serie di materiali utili alla nostra indagine sull’inglese e l’italiano, e spiegheremo ora il perché.

 

I “prodotti” della ricerca divisi per lingua e aree scientifico-disciplinari

 

Per la valutazione 2011-2014, ogni docente universitario della Repubblica è stato chiamato a presentare una serie di “prodotti” della ricerca, come si usa dire nel linguaggio un po’ aziendale ora in uso. Questi prodotti, in larga parte pubblicazioni, sono stati raccolti per un giudizio di merito, ma (per nostra fortuna) sono stati anche classificati in base alla lingua in cui sono scritti. Ogni docente ha dunque inviato (salvo rifiuto opposto per contestazione, e salvo il caso di chi, povero lui, non avesse “prodotti” da sottoporre a giudizio) una scelta delle pubblicazioni che riteneva migliori, allo scopo di essere giudicato e valutato per quelle.

Una tabella del lunghissimo rapporto finale dell’Anvur ci fornisce la percentuale delle pubblicazioni in italiano e in inglese, ripartita per aree disciplinari:

Per leggere la tabella, è ovviamente necessario conoscere quali siano le aree scientifico-disciplinari. Sono le seguenti:

Area 01 - Scienze matematiche e informatiche
Area 02 - Scienze fisiche
Area 03 - Scienze chimiche
Area 04 - Scienze della terra
Area 05 - Scienze biologiche
Area 06 - Scienze mediche
Area 07 - Scienze agrarie e veterinarie
Area 08 - Ingegneria civile (8b) e Architettura (8a)
Area 09 - Ingegneria industriale e dell'informazione
Area 10 - Scienze dell'antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche
Area 11 - Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche (11a) e psicologiche (11b)
Area 12 - Scienze giuridiche
Area 13 - Scienze economiche e statistiche
Area 14 - Scienze politiche e sociali

I dati della tabella numerica posso essere visualizzati in forma di grafico:

                              

La tabella ci aiuta a capire, per prima cosa, perché è nato il conflitto nel Politecnico di Milano: si vede bene che nell’area dell’Architettura l’uso dell’italiano per la ricerca scientifica è maggioritario rispetto all’inglese, a differenza di quanto accade nell’area dell’Ingegneria civile. È evidente che i professori di Architettura non potevano essere allineati ai loro colleghi ingegneri, perché nella loro ricerca l’uso della lingua è del tutto differente. Nel loro caso, applicare l’uso dell’inglese nella didattica appariva un’evidente contraddizione con la realtà della disciplina nella sua esistenza reale, cioè nella produzione scientifica degli addetti ai lavori. Analoga contraddizione si verifica nel caso Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche (11a) e psicologiche (11b), anche se lì il conflitto non è mai esploso, perché nessuno ha tentato il sopruso sugli altri.

La tabella mostra anche una situazione diversa tra le aree, perché è vero che la percentuale dei “prodotti” in italiano nelle discipline delle aree da 1 a 7, e poi 9 e 13, è estremamente bassa (pur non azzerata), ma l’italiano ha una posizione assolutamente maggioritaria nelle aree 8a, 10, 11a, 12, 14. Si vede anche che le aree 10, 11a e 14 sono caratterizzate più di altre da maggiore disponibilità al plurilinguismo, come dimostra lo spazio verde nelle colonne del grafico. Tale percentuale è particolarmente rilevante nell’area 10, che comprende gli insegnamenti di lingua e letteratura straniera, francese, spagnolo, tedesco ecc., perché (per fortuna) i docenti di queste discipline pubblicano non di rado nelle lingue che professano, e nei paesi in cui queste lingue sono in uso.

Per chi volesse verificare la situazione su di un arco temporale più lungo, anche per avere nozione dell’eventuale crescita dell’uso dell’inglese e di un eventuale calo (o magari crescita?) nell’uso dell’italiano, fornisco anche la tabella della valutazione Anvur 2004-2010, in cui però le aree 8 e 11 sono unite, e non divise in 8a e 8b / 11a e 11b:

 

 

Conclusione

 

Alla luce di queste tabelle (che analizzeremo più a fondo in una prossima occasione, valutando quello che è accaduto e accade settore per settore), gli avversari dell’italiano dovrebbero comprendere che uno zoccolo duro di uso dell’italiano in certe aree c’è, ed è necessario tenerne conto. Ecco, fra l’altro, la ragione per la quale la domanda PRIN 2017 avrebbe dovuto ammettere l’italiano, che per alcune discipline è necessario (non opzione facoltativa) non solo a scopo civile (lo scopo civile vale per tutti), ma anche per coerenza scientifica. È dunque necessario ragionare seriamente sulle necessità e sulla situazione reale delle diverse discipline universitarie, smettendola una volta per tutte di invocare il monolinguismo inglese per tutti, e deponendo atteggiamenti autoritari spacciati per l’unica soluzione possibile nel mondo globalizzato. Simili atteggiamenti non tengono conto dei fatti, della realtà della ricerca in Italia nelle diverse aree, dei diritti dei colleghi che “abitano” le colonne in cui prevale il colore blu: queste colonne esistono, e non credo convenga liberarsene appiccicando agli studiosi dei relativi settori il termine spregiativo “retromarcista”, categoria riciclata da Severgnini  nella polemica con il nostro collega svizzero Tomasin[1].

Se la discussione sugli effetti delle sentenze della Corte Costituzionale e del Consiglio di Stato terrà conto di questi dati reali, credo che sarà possibile salvaguardare le esigenze di tutti, ragionando pacatamente per trovare un punto di incontro tra posizioni diverse. Se la polemica dovesse continuare, nel tentativo di eliminare l’italiano dagli spazi che legittimamente occupa, lo scontro si farà sempre più duro, e andremo a verificare altri elementi e altre condizioni che ci permettano di gettare nuova luce sulla questione dell’italiano, dell’inglese e delle altre lingue nell’università. La Crusca, sicuramente, non mancherà l’appuntamento.

 

 


[1] Retromarcista, ad essere pignoli, non è propriamente neologismo di Severgnini: infatti compare nel 2014; cfr.  http://www.gerypalazzotto.it/category/erbaccia/page/7/; e anche cfr. l’archivio storico de “la Repubblica”, con esempio di Gery Palazzotto, nell’articolo Le maschere dell’onorevole saltafosso, datato 21 ottobre 2014, identico al blog a cui rinvia il collegamento.

 

 

 

 

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