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G. Fanello Marcucci, C. Marazzini, G. Di Leo e N. Maraschio
Il presidente Claudio Marazzini con Claudia Arletti e Mario Calabresi
Da sinistra: Benedetti, Givone, Benintende, Maraschio, Ravenni, Lavia
XII Convegno ASLI

E la risposta è… impiattata!


Quesito: 

A. C. da Pinerolo, C.C. da Roma, N. T. da Bergamo e S. B. da Firenze ci scrivono per segnalarci l'uso assai frequente del verbo impiattare nei programmi televisivi che si occupano di cucina.

E la risposta è… impiattata!

Che sia La prova del cuoco, Cotto e mangiato, Masterchef o qualsiasi altro programma di cucina tra le decine di quelli attualmente trasmessi in tv, pare proprio che l’impiattamento sia la necessaria fase finale di ogni sforzo culinario.

Ma impiattare è una parola italiana?

Basta dare uno sguardo al web per percepire una certa perplessità: “Odio il termine ‘impiattare’, lo trovo sgradevole e sgrammaticato, frutto dell'imperversare dei cuochi televisivi”, “il verbo ‘impiattare’ non esiste in italiano! È talmente brutto che fa cadere le braccia”. Il giornalista Davide Guadagni inserisce la parola incriminata nel suo “Dizionario dell’antilingua” (il suo blog sul sito de “l’Espresso” si occupa proprio di raccogliere segnalazioni relative alle “parole inascoltabili”), definendola così: ‘Disposizione coreografica del cibo nel piatto. Spesso superflua come chi la fa’.

Proseguendo la ricerca nella lessicografia, scopriamo in effetti che molti dei più grandi dizionari non riportano il nostro lemma: non c’è nel GDLI (è riportato solo nel significato di ‘appiattare, nascondere’), nel GRADIT, nel Sabatini-Coletti 2008. Nella versione online del Vocabolario Treccani la voce è presente, ma etichettata come “non comune”. Ma nei dizionari più aggiornati si avverte un’inversione di tendenza: impiattare entra infatti nello ZINGARELLI 2013, nel Devoto-Oli 2014, nel Garzanti online; inoltre la versione cartacea del Treccani, aggiornata al 2014, elimina significativamente la marca d’uso “non comune”.

Il verbo si forma a partire dal sostantivo piatto con la terminazione -are della prima coniugazione e il prefisso in-. Nella formazione delle parole, questo procedimento derivativo, detto parasintesi, è piuttosto comune; lo ZINGARELLI chiarisce che in- “è usato nella derivazione di verbi […] da aggettivi (tenero-intenerire), sostantivi (fiamma-infiammare, lume-illuminare, raggio-irraggiare, buca-imbucare, amore-innamorare)”, ecc.

Le definizioni sono molto simili tra loro: "Disporre con cura una vivanda nel piatto" per lo ZINGARELLI; "Disporre su un piatto, spesso con una certa eleganza" per il Garzanti; "Nel linguaggio della ristorazione, disporre nel piatto una preparazione pronta" per il Treccani 2014; il Devoto-Oli, infine, si dilunga con una definizione più dettagliata: “Disporre con gusto una pietanza in un piatto, eventualmente accompagnandola con elementi decorativi, anch’essi commestibili, in modo che risulti gradevole alla vista”. Il suo significato attuale non si limita quindi al neutro ‘mettere una vivanda in un piatto’, uso che tuttavia è attestato e sembra comune (principalmente al participio passato) nel linguaggio colloquiale, in particolare nel toscano, come forma analoga a scodellato ‘versato in una scodella’. Riguardando le definizioni dei dizionari ci accorgiamo infatti che l’azione è connotata in maniera più specifica: sono significative le indicazioni "con cura", "con gusto", a indicare che si tratta di un’operazione che ha finalità decorative (e c’è chi la definisce una vera e propria arte), un tocco di stile conclusivo che arricchisce il piatto, dando importanza non soltanto alla qualità della pietanza, ma anche al modo in cui viene presentata. Questa modalità costituisce un’alternativa al tradizionale servizio alla francese che invece prevede che il cibo venga, appunto, impiattato direttamente in tavola davanti al cliente, saltando quindi questa fase preparativa.

Il Treccani 2014 sceglie invece di spiegare il significato del termine delimitandone l’ambito d’uso: "Nel linguaggio della ristorazione". È indubbio, infatti, che, nonostante l’uso abbondante che se ne fa nei programmi tv, impiattare non è altrettanto diffuso nelle nostre case: si tratta di un termine legato appunto all’ambito della ristorazione, a una cucina quindi (si presume) di un certo livello, particolarmente attenta alla presentazione della pietanza.

Resta tuttavia da capire se ci troviamo di fronte a una parola da sempre utilizzata nel settore, e arrivata poi in televisione grazie al boom di trasmissioni culinarie, o se invece il percorso sia stato inverso e il termine sia partito proprio dalla tv. Sul web le prime attestazioni risalgono alla seconda metà degli anni ’90, ma fino al 2005 il motore di ricerca Google ci restituisce soltanto circa 350 risultati, comprensivi della forma all’infinito e del participio passato.

Sembra decisamente probabile quindi (e una testimonianza in questo senso viene anche dai dizionari, che individuano nel 1976 la prima attestazione) che la formazione di impiattare sia indipendente dalla diffusione dei programmi televisivi, i quali tuttavia hanno senza dubbio contribuito in maniera decisiva a rendere comune un termine settoriale, funzionando da amplificatori. La prevalenza dell’uso di un’unica forma verbale per sostituire le forme perifrastiche (disporre, mettere, adagiare, posizionare nel/sul piatto) è infatti congeniale alle necessità di immediatezza e di efficacia comunicativa proprie del mezzo televisivo. A conferma di ciò, anche la casa editrice Mondadori, in una breve recensione al dizionario Devoto-Oli 2014, sostiene che tra le 500 nuove parole inserite, alcune provengono “dalla televisione e dai giornali”, citando tra queste proprio il nostro verbo.

Dal piccolo schermo si arriva poi alla carta stampata, che negli ultimi anni ha visto una vera e propria proliferazione di libri di ricette scritti proprio dagli chef di tutto il mondo diventati famosi grazie alla tv. Google Libri ci fornisce addirittura centinaia di risultati per impiattare, confermando che si tratta di un termine ormai insostituibile per gli addetti ai lavori.

Il web, come è noto, si dimostra il luogo più fertile ad accogliere le nuove tendenze lessicali. In rete le occorrenze di impiattare risultano 138.000 (dati Google), a cui si aggiungono le 16.200 dell’imperativo impiatta e le 135.000 delle forme al participio passato (impiattato/a/i/e), tra le quali è compreso però anche l’imperativo alla seconda persona plurale impiattate; il quadro si conclude con il sostantivo derivato impiattamento, che arriva a quota 70.000.

Se tali dati rispecchiano un uso ormai consolidato, è però necessario precisare che le forme perifrastiche mantengono complessivamente il primato: a titolo di esempio, digitando disporre * nel piatto (l’asterisco ci permette di prevedere un’eventuale parola dopo il verbo) si ottengono oltre 2 milioni di risultati; posizionare * nel piatto arriva quasi a 900.000; numerosissime, oltre 13 milioni, le occorrenze di mettere * sul piatto, anche se vi sono compresi significati che esulano da quello culinario (tutti i dati tratti da Google fanno fede alla data 7/04/2015).

Concludendo, per rispondere a chi si chiede se sia giusto accettare questa parola nella nostra lingua, evitando di entrare nel merito del gusto personale ci limitiamo a constatare che si tratta di una formazione corretta e analoga, come abbiamo detto, a molte altre dell’italiano; la diffusione piuttosto ampia e l’accoglimento nei dizionari più recenti confermano inoltre la sua crescente vitalità.

 

A cura di Irene Pompeo e Benedetta Salvi
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca

27 aprile 2015