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Il Tema

La competenza linguistica dei giovani italiani: cosa c'è al di là dei numeri?


Settembre 2019

Rosario Coluccia

 

Luglio 2019: si sono appena conclusi gli esami di maturità, il nuovo esame di Stato al debutto quest’anno. Si sono diplomati in Italia circa 520 mila studenti, con voti assai variabili, dal 60 (che è il minimo) al 100 e lode (che è il massimo). Ovvio, i ragazzi non sono tutti ugualmente bravi. I risultati variano anche a seconda del tipo di scuola (liceo classico, scientifico, industriale, ecc.), dei contesti ambientali, della dislocazione regionale. Il confronto tra i punteggi di  quest’anno e quelli dell’anno passato, segmentati  per blocchi di voti (promossi con 60; con punteggi compresi tra 61 e 70; tra 71 e 80, tra 81 e 90; ecc.) registra piccoli scostamenti in più o in meno, non rilevanti. Un paio di percentuali merita attenzione. I diplomati finali sono il 99,7%, contro il 99,6% dell’anno scorso. Inoltre, rispetto all’anno precedente, aumenta la percentuale di studenti che si maturano  con il massimo dei voti: i diplomati con 100 e lode sono l’1,6% (nei licei la cifra sale al 2,5%), mentre l’anno scorso erano l’1,3%. La percentuale dei promossi è altissima e aumenta anche il numero degli studenti che ottengono il punteggio massimo. Un sito commenta: "Da questi numeri si può capire che gli studenti italiani migliorano di anno in anno e che, in particolare, i maturandi che hanno appena affrontato la maturità  sono stati davvero bravi rispetto ai colleghi degli scorsi anni".

Ma è davvero così?  Altre verifiche danno risultati contraddittori. Da una decina d’anni nelle scuole italiane si svolgono le cosiddette prove Invalsi ("Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione") che intendono misurare le competenze in italiano, matematica e inglese degli studenti di elementari, medie e superiori. Non sono banali, vige un sistema di controllo piuttosto rigoroso. Dai test Invalsi risulta che alle superiori uno studente su tre non è in condizione di capire un testo in italiano di media complessità, senza contenuti tecnici o astrusità particolari. E dunque. Di fronte a una percentuale di promossi nelle scuole che rasenta il 100%, in altre prove molti studenti ottengono risultati scarsi o scarsissimi, comunque insufficienti.

Si tratta di diversità dovute, semplicemente, a diversi criteri di analisi o (addirittura) a errori di valutazione commessi dai ricercatori? Per capirne di più, conviene allargare lo spettro dei confronti. PISA ("Programme for International Student Assessment") è una sigla che indica un’indagine dell’OCSE ("Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico") che valuta l’efficacia del sistema educativo mondiale. Vengono esaminati circa 540 mila studenti di 15 anni, rappresentativi di circa 30 milioni di coetanei, dislocati in 72 paesi, con tradizioni, storia, economie diverse. Si tratta di numeri molto alti, che non è possibile sottovalutare. La prima indagine PISA si è svolta nel 2000, viene ripetuta  ogni tre anni (l’ultima è del 2018), allo scopo di misurare anche le linee di tendenza, i miglioramenti e i peggioramenti.

Si considerano matematica, scienze e padronanza linguistica (naturalmente la lingua madre cambia paese per paese, nel nostro caso si considera la padronanza dell’italiano). Queste discipline sono alla base delle conoscenze e delle abilità necessarie per una piena partecipazione dell’individuo alla vita della società  moderna, rispondono alla domanda: "Cosa è importante per un cittadino conoscere ed essere capace di fare"? Ai primi posti della più recente classifica troviamo Singapore, Giappone, Estonia, Taipei (/Formosa), Finlandia, Macao (Cina), Canada, Viet Nam, Hong Kong (Cina), Cina. Ce n’è abbastanza per smentire presupposizioni infondate (sull’eccellenza del sistema educativo occidentale tradizionale) e pregiudizi (sulle nazioni ritenute arretrate). L’Italia si colloca più o meno a metà classifica. Non c’è da consolarsi, siamo lontani dai vertici, battiamo paesi con economie povere e spesso dilaniati da guerre recenti; agli ultimi posti si collocano Tunisia, Macedonia, Kosovo, Algeria, Repubblica Domenicana.

Se si scompongono i dati l’allarme aumenta. Esistono differenze tra gli studenti italiani del Nord e quelli del Sud e delle Isole. Confrontati con la graduatoria globale, i primi (Bolzano, Trento e la Lombardia) raggiungono la media più alta, i secondi affondano in classifica nelle ultime posizioni. Gli studenti della Campania sono nella parte bassa, al pari dei ragazzi delle Azzorre e dell’Argentina. E allora converrà riconsiderare con estrema attenzione (non dico con sospetto) i risultati della maturità 2019, che indicano nella Campania  la Regione con il più alto numero assoluto di diplomati con lode (1.287), seguita da Puglia (1.225) e da Sicilia (817); se si considera invece il  rapporto tra diplomati con lode e diplomati totali il risultato migliore viene raggiunto dalla Puglia (3.4%), seguita dalla Calabria (2.6%) e dall’Umbria (2.4%) (la media nazionale è dell’1,3%).

Forse qualcosa non va nei voti alti concentrati in larga parte in alcune regioni. Né ha senso invocare un sorta di federalismo degli esami, assurdamente compensativo rispetto al federalismo di risorse, sanità, retribuzioni (anche dei docenti) che i governatori di Veneto e Lombardia reclamano per le loro regioni, in nome di un’autonomia mal intesa. Non è questo il punto cruciale. Al di là di qualche oscillazione dei voti, il problema di una scarsa conoscenza dell’italiano è generale, riguarda il paese intero.  Alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente.

Fino a pochi decenni fa avevamo un’ottima scuola primaria, un liceo classico dove si studiava con profitto. Oggi le cose sono mutate. La scuola, lasciata sola a combattere i "mali del mondo" (dal riscaldamento globale alla ludopatia, dal ciberbullismo ai disturbi alimentari), si trova in difficoltà di fronte all’obiettivo di garantire una preparazione adeguata a tutti i frequentanti. Inutile lamentarsi dei risultati Invalsi se non si dotano le scuole di biblioteche, se non si fanno arrivare i libri nelle case in cui mancano, se non si investe in modo sistematico nella promozione della lettura. I dati sulla povertà dei ragazzi (economica ed educativa), sul numero dei lettori, sull’abbandono scolastico, sulla disoccupazione giovanile narrano tutti la stessa storia: il fallimento dello Stato nel rimuovere gli ostacoli materiali e morali per la realizzazione di una piena uguaglianza.

Nel gennaio 2017 e nei mesi successivi fece molto rumore il cosiddetto appello dei seicento, sottoscritto da un folto gruppo di intellettuali, scrittori, giornalisti (non solo professori) che si intitolava "Saper leggere e scrivere: una proposta contro il declino dell’italiano a scuola". Se ne parlò molto, a quel tempo, anche con pareri diversi. Condivisa fu la constatazione che il dominio dell’italiano da parte dei giovani è in netto declino. Aggiungo: lo smottamento linguistico non coinvolge solo i giovani, è generalizzato. Errori grossolani pullulano sui media, né va meglio con professioni (magistratura, avvocatura) che pure hanno la lingua, il nostro più importante bene culturale immateriale, al centro della propria attività. L’uso maldestro dell’italiano, anche fuori dalla scuola e dall’università, è incontestabile. L’analfabetismo di ritorno è diffuso, molti adulti ne soffrono. E nulla di serio si propone (né, tanto meno, si fa) per contrastarlo.

Vengo al nodo, non tutti saranno d’accordo. Basta con le facilitazioni, comunque motivate. Bisogna puntare sulla qualità, a tutti i livelli. Invece si bada ai numeri, disinteressandosi dei contenuti, cedendo alle pressioni dell’ambiente e al sindacalismo dei genitori, che rivendicano a priori voti alti per i propri figli. Non cambia all’università. Ci sono corsi in cui molti si laureano in anticipo rispetto agli anni previsti e la media del voto di laurea oscilla tra 110 e 110 e lode. Il Ministero premia questi corsi, ritenendo tali risultati eccellenti (e quindi incoraggia l’imitazione del modello); ma ho forti dubbi che quegli studenti siano tutti dei geni. Si premia l’apparenza, non la sostanza. Non rendiamo un buon servizio agli studenti se mettiamo sul medesimo pregevole piano chi studia duramente, con fatica, spesso in condizioni economiche disagiate, e chi ottiene gli stessi risultati immeritatamente. Ieri si guardava con ammirazione chi, a prezzo di sacrifici, riusciva a raggiungere livelli elevati di preparazione. Oggi invece prevale la convinzione che studio e sapere (privi di prestigio) sono irrilevanti per il successo sociale ed economico (ma non è così, un livello di competenze elevato dà anche vantaggi economici). La spinta generalizzata verso l’alto, indipendentemente dalle qualità e dall’impegno, non fa bene alla nostra  scuola e alla nostra università.

La vera sfida è puntare sull’eccellenza reale, misurandosi alla pari con il resto d’Europa e con il mondo. Sono necessari investimenti strutturali: edifici, palestre, libri, attrezzature e strumenti didattici. Non sarebbe spesa improduttiva. I professori, già chiamati a un lavoro improbo e scarsamente considerato, abbiano voglia di porsi obiettivi ambiziosi, offrendo ulteriore impegno e chiedendo ai ragazzi qualità. Creare una vera unità nazionale nell’istruzione dovrebbe essere scopo primario della politica e obiettivo del paese intero. Servono giovani preparati, all’altezza dei tempi.

La partita  si gioca  nella scuola, lì si vince o si perde tutto. Non ho ricette da proporre. Offro alla valutazione dei lettori solo modesti spunti di riflessione.

  • Chi ha il potere di decidere non ceda alla velleità di varare ulteriori riforme scolastiche. Ogni governo tenta la propria, puntualmente smantellata dal governo successivo. Per qualche anno lasciamo che i professori, vessati dalla compilazione di questionari, di moduli e da adempimenti burocratici vari, possano lavorare tranquillamente, senza novità normative.  La politica, senza clamore, si occupi di aumentare gli stipendi dei professori della scuola (oggi quasi indecorosi), di allestire biblioteche ricche di libri e laboratori ben attrezzati.
  • I professori non rinunzino a esigere dagli studenti cognizioni, nozioni, date (un tempo giudicate essenziali e oggi ritenute inutili). Non è possibile l’apprendimento  se  mancano l’approfondimento e la riflessione individuali.  Capire quello che si legge, parlare e scrivere correttamente richiedono applicazione e studio. Sono insensate le parole d’ordine che invitano i ragazzi a non studiare perché è inutile (essere competenti non serve!) e i professori a non dare compiti a casa (tutto deve concludersi in classe, senza fatica!). Ritorni nella scuola l’esercizio della memoria, facoltà importantissima alla quale abbiamo rinunziato a cuor leggero. Non sto esaltando il nozionismo, sto invitando alla conoscenza.
  • Gli studenti, abituati alla comunicazione spezzettata dei social, allo scorrere frenetico di informazioni e di immagini, alla perpetua connessione in rete, si addestrino a distinguere, confrontare, scegliere nel mare di notizie complesse e contraddittorie disponibili fuori dalla scuola. Con la guida dei professori, cerchino nella scuola e nei libri di testo i percorsi per la loro preparazione.
  • Le università preparino in modo adeguato i futuri insegnanti, che spesso posseggono in misura ancora limitata le nozioni di linguistica indispensabili per un efficace insegnamento dell’italiano. Dopo la laurea è necessario un aggiornamento costante degli insegnanti, di cui dovranno farsi carico ancora le università,  insieme ad Accademie come la Crusca e i Lincei, ad Associazioni come l’ASLI e la SLI, che con grande merito già operano in quest’ambito. Università, Accademie e Associazioni facciano questo con le proprie risorse, senza spese per i partecipanti,  sottraendo gli stessi al diluvio di corsi, corsetti e master di pessima qualità, organizzati da  individui poco seri che dell’aggiornamento nelle scuole hanno fatto un mestiere lucroso.

Il tema riprende, con modifiche, due articoli apparsi in "Nuovo Quotidiano di Puglia", il 4 e il 18 agosto 2019.

 

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Settembre 2019

L’articolo del prof Coluccia individua in maniera chiara i problemi in cui si dibatte la scuola italiana del XXI secolo. Una scuola sommariamente democratica che ha smesso di pretendere dai suoi studenti, capace di ribaltare lo spirito costituzionale di una scuola aperta a tutti. Nei fatti una scuola pubblica che non funziona o funziona poco diventa sempre più classista per cui chi può iscrive i figli in istituti privati e per gli altri non resta che l’antica arte di arrangiarsi. Alcune volte con lodevoli risultati ma in generale con un massiccio abbassamento della qualità. I risultati delle prove INVALSI e la classifica dell’OCSE presentano un paese diviso tra Nord e Sud e una mediocrità nelle discipline (matematica, scienze e padronanza linguistica) necessarie alla piena partecipazione dell’individuo alla vita sociale.
Nel testo si fa riferimento alla scuola di pochi decenni fa che ha prodotto risultati apprezzabili e che ha permesso all’Italia un salto qualitativo importante. Ma da alcuni anni le cose sono radicalmente cambiate. Agli insegnanti si chiede, come scrive Alberto Melloni su Repubblica in una lettera indirizzata ad un' immaginaria docente, di essere onniscienti: << Da un lato, infatti, tutti si aspettano da lei l’onnipotenza onnisciente. Lei deve smontare il bullismo e insegnare la grammatica. Far capire la relatività e prevenire la violenza di genere. Trasmettere l’amore al sapere e la cultura della sostenibilità. Gestire i disturbi specifici dell’apprendimento ed essere attore della rivoluzione digitale. Vigilare sul razzismo e sulle equazioni di secondo grado. Iniziare all’arte e combattere l’analfabetismo religioso>> . << Dall’altro gli stessi - continua Melloni - quando sospettano non sia onnipotente, le porgono il loro disprezzo. Perché è stata lei – non tenti di negarlo – che non ha insegnato l’antifascismo, l’autorità, il congiuntivo, le competenze digitali e dunque il razzismo, la cialtroneria, l’analfabetismo di ritorno e la dipendenza da smartphone sono colpa sua. E poi, se non avesse perso tempo a leggere, avrebbe potuto restaurare un po’ di autoritarismo, strappando di mano ai ragazzi i telefonini con la frusta di Indiana Jones, dopo un corso online disponibile sulla apposita piattaforma Edufuffa. E dunque, per queste colpe, lei si merita non solo uno stipendio modesto ma soprattutto il disprezzo sociale e il compatimento>>. Sul filo dell’ironia Melloni coglie le varie problematiche che affliggono la scuola e che secondo il nostro parere affondano le radici nelle riforme volute dai governi sul finire del secolo scorso e che sono continuate fino ai nostri giorni. Negli ultimi vent’anni, infatti, il nostro sistema scolastico è stato sfigurato dall’ostinazione con cui i governi hanno destrutturato scuole e università pubbliche con l’intenzione di colmare il divario tra istruzione e mercato del lavoro: inventariare la domanda delle aziende e orientare su quest’ultima l’intero assetto della formazione. Ciò ha gradualmente convertito il diritto allo studio sancito dalla Costituzione in un servizio a pagamento, adeguato agli investimenti e opportunamente monitorato dagli investitori. La chiave di tutto ciò è il varo dell’autonomia scolastica: dopo quella degli Atenei, abbiamo avuto la legge dell’autonomia scolastica, con cui, nel perseguire il decentramento amministrativo, si istituiscono centri di istruzione separati e in competizione: ogni singola scuola deve promuovere sul mercato una propria «offerta formativa» (POF/PTOF) per il maggior numero di studenti-clienti. Insieme all’autonomia, il governo si adopera, con la legge sulla parità scolastica, per il progressivo definanziamento delle spese per l’istruzione pubblica, cui corrisponde un aumento degli oneri dello Stato verso le scuole private. Successivamente si assiste a corposi tagli, introduzione di test e valutazioni continuate fino alle recenti riforme che prevedono forme di contiguità con il lavoro (Alternanza scuola/lavoro - PCTO) scimmiottando il sistema tedesco senza averne i presupposti. L’annientamento del valore della cooperazione, la precarizzazione dell’insegnamento, il rafforzamento autoritario delle figure apicali e per gli studenti una atomizzazione dei programmi e dei valori formativi, che lascia spazio alle tante diseguaglianze territoriali di censo e di ceto, sono il risultato finale. Scomparsi i libri, cancellato il tempo della riflessione e della condivisione, non resta che una corsa affannosa attraverso scadenze didattiche d’ogni genere, segnate da un tempo riempito a viva forza dal simulacro dell’efficienza. Non possiamo sapere se questo processo sia reversibile considerate le prime dichiarazioni dell’attuale Ministro dell’Istruzione secondo il quale <> e immancabili rimandi al sistema scolastico finlandese. Siamo convinti che il Ministro non volesse far passare l’idea di una scuola come un parco giochi ma l’uso di determinati vocaboli può generare equivoci. <> faceva dire Nanni Moretti al suo alter ego Michele Apicella nel film Palombella rossa. I verbi da declinare sono altri: educare primo fra tutti. <> - scrive Susanna Tamaro in un editoriale sul Corriere della Sera - «richiede però l’esistenza di un principio di autorità, principio ormai scomparso da ogni ambito della vita civile>>.
Ricette sul breve periodo ovviamente non ce ne sono. Certamente ognuno deve fare la sua parte docenti, studenti, famiglie e chi opera scelte politiche. Fanno sperare le parole del Presidente della Repubblica pronunciate qualche giorno fa in occasione dell’inaugurazione dell’anno scolastico. Mattarella ha ringraziato i docenti per aver colmato le carenze organizzative e materiali della scuola italiana consapevole del fatto che solo la scuola può far ripartire quella mobilità sociale che è stata fonte di crescita nel passato.

Ciro Buccoliero – Maria Teresa Greco docenti corsisti Accademia dei Lincei polo pugliese.

Le osservazioni del prof. Coluccia non possono non essere condivise.
Se comparassimo i risultati Invalsi di italiano e di inglese dei ragazzi delle scuole superiori, probabilmente avremmo l’amara sorpresa di vedere che hanno raggiunto risultati migliori in inglese piuttosto che in lingua madre, come è accaduto nella mia scuola.
Dobbiamo quindi riflettere su come insegniamo, su come strutturiamo un curricolo verticale, su come certifichiamo competente e traguardi.
La lingua è strumento di apprendimento, ci consente di acquisire e valutare in maniera critica le informazioni.
La competenza linguistica è il modo modo per apprendere in modo critico e per tutta la vita, per comprendere e interpretare il mondo: rappresenta, quindi, la possibilità di esercitare la cittadinanza in maniera attiva e consapevole. Non può essere solo un problema del professore di italiano.

L'articolo del Prof. Coluccia tocca i punti dolenti del sistema educativo italiano. Personalmente, diffonderei il più possibile i consigli operativi, i quali - se non m'inganno - risultano immediatamente applicabili. Certamente la qualità è l'obiettivo al quale tutti dobbiamo tendere. E faccio un esempio concreto. Nella scuola secondaria di primo grado, spesso, troppo spesso, si trascura l'insegnamento della storia linguistica e letteraria, non solo dei primi secoli, ma anche di epoche più recenti. "Troppo difficile" - si dice. Non è affatto vero! Attraverso Dante, Foscolo o Montale, i nostri ragazzi imparano a dare un nome alle emozioni; imparano - gli italiani del futuro - a comprendere, dando ad essi un nome, i moti dell'animo. I nostri alunni hanno una gran voglia di apprendere: più l'impresa è ardua, più desta interesse e spirito d'avventura. Perché la scuola è anche questo: un'avventura emozionante, un percorso entusiasmante. Nell'augurare a tutti un buon inizio d'anno scolastico, mi permetto di segnalare un'iniziativa nata all'interno del corso di formazione "I Lincei per una nuova didattica nella Scuola: una rete nazionale" (Italiano - Polo pugliese - sede di Lecce): intervistedantesche.blogspot.com.
Buona navigazione!

L'analisi del Prof. Coluccia individua con chiarezza alcuni nodi problematici della scuola e della preparazione degli studenti italiani. Avendo avuto modo di operare in tutti e tre i gradi dell'istruzione scolastica, confermo che che la tendenza al ribasso nelle richieste dei docenti nei confronti degli alunni e ad una valutazione generosa delle loro performance è pervasiva ed è, da un lato, frutto della pressione dei genitori, dall'altro conseguenza della aziendalizzazione della scuola italiana, dove i Dirigenti scolastici, nel timore di perdere utenti e di ricorsi dei genitori, invitano a promuovere anche in caso di impegno nullo da parte degli studenti,
Non aiuta la burocratizzazione della funzione degli stessi docenti, sempre più chiamati a garantire la correttezza formale di documenti sempre più numerosi che il più delle volte non rispecchiano la realtà effettiva. Maggiori investimenti in strutture e sovrastrutture, in una professionalità docente che abbia nelle capacità psicopedagogica e metodologico-didattica i suoi punti di forza e che sia adeguatamente retribuita vanno coniugati con il coraggio di rallentare e puntare, nell'attività docente, sulla qualità piuttosto che sulla quantità (facendo inciampare i ragazzi in problemi di tipo cognitivo, abituandoli alla osservazione, alla riflessione, all'analisi approfondita come presupposto dello sviluppo di una autonoma capacità di comprensione e di sintesi, nonché di una graduale acquisizione di senso critico.

Sono un’insegnante di discipline giuridiche ed economiche in un istituto tecnico di un paese della Campania. Ho apprezzato molto la sua lucida analisi delle condizioni in cui versa la scuola italiana e soprattutto i suggerimenti per cercare di contenere la deriva e invertire la rotta.
Ha espresso in maniera magistrale i pensieri che da anni sono costretta a reiterare, purtroppo senza esito, nei consigli di classe e nei collegi dei docenti.

Mi spiace dirle che facciamo parte di un’esigua minoranza che ha scarse possibilità di veder accolta e realizzata la propria idea di scuola,
Pur essendo ormai quasi alla fine della mia carriera sono enormemente sfiduciata ed addolorata, ma la sua autorevole testimonianza mi è stata di grande conforto. La ringrazio

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