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Nicoletta Maraschio professoressa emerita dell'Università di Firenze
Monica Berté e Maurizio Fiorilla
Laura Boldrini all'Accademia della Crusca
Max Pfister e Massimo Fanfani

Segnali di ottimismo linguistico


Ottobre 2018

Claudio Marazzini

 

Nel mio libro L’italiano è meraviglioso (Rizzoli, 2018, pp. 227-29) ho avuto occasione di lamentare lo scarso uso della lingua italiana da parte di esponenti politici del nostro paese, ricordando quanto è accaduto a Davos, in Svizzera, nel gennaio 2018, al «World Economic Forum» in cui si radunano i potenti della Terra per discutere del futuro del Pianeta. Nel libro ho raccontato quello che tutti possono verificare da sé mediante i filmati che si reperiscono facilmente in YouTube.

Il presidente del Consiglio italiano, in quel momento Paolo Gentiloni, è stato introdotto da un presentatore che parlava in inglese; egli stesso ha parlato in inglese, sia nel discorso dal palco, sia nell’intervista successiva. L’inglese di Gentiloni è risultato più che dignitoso, appropriato a uno spazio internazionale. Tuttavia la lingua italiana non si è mai sentita, anche se parlava il presidente del Consiglio della Repubblica italiana. Gentiloni ha adottato l’unico comportamento possibile? Credo di no. Infatti la rappresentante della Germania, Angela Merkel, è stata presentata in tedesco, ha parlato in tedesco nel discorso ufficiale, ed è stata intervistata in tedesco. Ha sempre usato la lingua della nazione che rappresentava. Il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, è intervenuto parlando in inglese, ma a metà è passato al francese, per poi chiudere in inglese. Il suo discorso, di circa un’ora, è stato equamente diviso tra la lingua internazionale e la lingua nazionale. L’inglese di Macron era di qualità altissima. Il francese è anche una delle lingue nazionali e ufficiali nella Repubblica elvetica, dove si svolgeva l’evento, come del resto lo sono il tedesco e l’italiano. L’episodio su cui mi sono soffermato spiega che cosa io intenda per «politica linguistica implicita», diversa dalla politica linguistica «esplicita», la quale si attua invece attraverso annunci e dichiarazioni. La politica linguistica implicita è persino più efficace di quella esplicita, e si realizza attraverso fatti, come quelli che ho descritto.

 

[WEF 2018, L'intervento di Emmanuel Macron]

 

[WEF 2018, L'intervento di Angela Merkel]

 

 

[WEF 2018, lL'intervento di Paolo Gentiloni]

 

Il 30 luglio 2018 il presidente del Consiglio italiana Giuseppe Conte ha incontrato il presidente Trump a Washington. Tutti possono vedere come si è svolta la conferenza stampa alla fine dell’incontro. Il filmato è disponibile in molte versioni in YouTube, ad esempio questa che indico:

 

        

[Giuseppe Conte a Washington]

 

Il presidente Conte ha esordito in inglese, ringraziando Trump dell’invito e dell’attenzione per l’Italia, e poi ha detto: “…I don’t want to renounce to privilege for speaking in my beautiful language”, ed è passato all’italiano. Finalmente l’italiano è risuonato in una sede internazionale di prestigio, di fronte a tutti i giornalisti e osservatori presenti all’evento. Non posso non interpretare questa scelta se non come un atto di politica linguistica implicita che ha restituito all’italiano la dignità di una lingua legittima, cioè di una lingua alla quale non è obbligatorio rinunciare in sedi internazionali. A Davos i rappresentati dei rispettivi Paesi non hanno rinunciato al tedesco e al francese, ma l’italiano è risultato assente. A Washington l’italiano è risultato presente, accanto all’inglese-americano. Speriamo che questa rinascita continui.

Un altro bellissimo segnale. Nell’ottobre 2017 si è diffusa la notizia di un’importante osservazione compiuta dagli interferometri LIGO (Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory, progetto i cui responsabili scientifici hanno avuto il Nobel nel 2017), l’osservatorio statunitense ideato per il rilevamento delle onde gravitazionali. All’osservazione ha partecipato il partner italiano di LIGO, che si chiama Virgo. Virgo è un grande interferometro costruito da una collaborazione internazionale per rilevare onde gravitazionali provenienti dall'universo. È situato nel comune di Cascina (PI), in località Santo Stefano a Macerata. Ligo e Virgo hanno osservato la fusione di due stelle di neutroni con la produzione di raggi gamma e onde gravitazionali. Il telescopio spaziale della NASA, che si chiama Fermi, ha rilevato i raggi gamma, e il sistema LIGO-Virgo ha trovato il segnale dell’onda gravitazionale nei propri dati, arrivato circa 2 secondi prima (cfr. https://www.agi.it/blog-italia/scienza/onde_gravitazionali_astronomia_multimessenger-2258903/post/2017-10-16, oppure https://www.orgoglionerd.it/blogs/rasoio-di-occam/2017/11/multimessenger-astronomy-cosa-significa-perch-cambier-la-scienza).  Di fronte a queste tecniche esplorative, si parla ormai comunemente di Multimessenger Astronomy, una nuova via di esplorazione dell’universo che si avvale in combinazione delle onde elettromagnetiche e di quelle gravitazionali, previste nella teoria di Einstein. E dove sta la parte linguistica? Eccola. Alla fine del luglio 2018,  la redazione e il comitato scientifico della rivista “Asimmetrie” dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, per l’uscita del loro numero di ottobre che avrà come tema i “messaggeri”, si sono rivolti alla Crusca, attraverso il canale di Facebook, per la scelta dell’equivalente italiano di Multimessenger Astronomy, ponendo l’alternativa fra “astronomia-multimessaggero” o  “astronomia-multimessaggera”. Dunque alcuni scienziati si sono posti il problema di dire in italiano, anziché di ripetere in inglese, e si sono chiesti quale fosse la forma migliore di calco. La Crusca ha dato una prima risposta rapida, preferendo l’accordo al femminile, riservandosi semmai di riflettere se sia possibile accettare qualche cosa di più ambizioso di un calco, cioè “astronomia delle onde” o “astronomia multionda” (in Rete circola anche astronomia-multimessaggio). Gli scienziati, discutendo con il Presidente, hanno obiettato che non solo di “onde” si tratta, ma che i “messaggeri” sono anche particelle come i neutrini (i famosi “neutrini” di Fermi, che coniò il neologismo italiano: a quell’epoca era ancora possibile). Ecco la prima prova dell’utilità della traduzione, la quale significa sempre interpretazione e approfondimento intellettuale: la divulgazione grossolana, oggi prevalente, la quale adotta disinvoltamente i forestierismi senza porsi problemi di sorta, non avrebbe permesso di cogliere la varietà dei “multimessaggeri”, nella loro pluralità (i “multimessaggeri”, preferibili al semplice e riduttivo “multimessaggio” che, come abbiamo detto, circola in Rete). Lo sforzo di tradurre, come si vede in quest’occasione, permette ai non addetti ai lavori di avvicinarsi al problema e di ragionarci sopra. Dalle discussioni tra gli scienziati e la Crusca è emerso anche “astronomia a multimessaggero/-i”, che (una volta sciolta  l’incertezza tra singolare e plurale) potrebbe accontentare sia gli scienziati sia i linguisti. Si vedrà. Ma fin d’ora è importante sottolineare che gli scienziati si sono posti un problema relativo alla trasposizione in italiano di una loro novità, e con questo hanno dimostrato una sensibilità che temevamo si fosse persa, e che siamo felici di ritrovare intatta.  Siamo dunque grati del quesito, e cercheremo di essere all’altezza, per questa e per altre collaborazioni. Intanto, registriamo questi due segnali di ottimismo linguistico che ci fanno bene sperare per le sorti dell’italiano, uno proveniente dal mondo della politica, l’altro dal mondo della scienza.

 

 

    Intervento conclusivo di Claudio Marazzini
    La discussione sul Tema è stata parca, con pochi interventi. Il primo intervenuto è stato misurato e puntuale, anche se critico. Il secondo commentatore è partito per la tangente, ma questo gli è stato già fatto osservare con chiarezza dalla lettrice Clara, con cui concordo. Giusta l'osservazione del lettore Concetto, relativa al Papa: mi piacerebbe davvero avere Papa Francesco in Crusca, una volta o l'altra. Chissà? Forse ci riuscirò.
    Veniamo all'inglese di Conte. Ho provveduto a chiedere un parere a due nostri accademici esteri, al collega Haller, che insegna nella City University of New York, e al collega Kinder, che insegna in Australia. L'inglese ai due capi del mondo. Entrambi i periti hanno emesso il medesimo verdetto: la frase inglese è imperfetta. Questo il parere di Kinder, della University of Western Australia, che mi pare molto interessante e ben argomentato:

    Caro Presidente
    è un piacere poter gettar luce su questioni linguistiche, anche relative all’inglese. Effettivamente la frase pronunciata da Conte non è corretta. È inciampato in quegli elementi che per tutti sono fonte di errori: le preposizioni e le reggenze verbali.
    Renounce è verbo transitivo, a differenza di "rinunciare" italiano. “Renounce to” non si dice.
    privilege for speaking doveva essere privilege of speaking.
    Bisogna dire, però, che a me, parlante nativo dell’inglese, tali lapsus risultano piuttosto insignificanti. So bene quanta fatica ci vuole per imparare, in italiano, quali verbi reggono, davanti a un complemento nominale o a un verbo all’infinito, le preposizioni a, di, o nessuna preposizione.
    Nella sua pronuncia inglese Conte è stato sciolto e a suo agio. Un paio di preposizioni credo gli si possano perdonare.
    Con l’augurio di buon lavoro, ti saluto con stima
    John Kinder

    Io penso che sia importante usare l'italiano quando si parla all'estero in forma ufficiale a nome dell'Italia. Non credo che si debba giudicare un uomo politico per la bravura con cui maneggia l'inglese, perché altrimenti faremmo bene a farci amministrare solo da professori di inglese. Certo, la conoscenza dell'inglese è necessaria, come del resto quella di altre lingue; una conoscenza di livello alto aiuta molto nelle trattative internazionali, soprattutto nei colloqui privati e di corridoio. Quando si parla ufficialmente a nome del proprio paese, le cose dovrebbero essere diverse, come dimostra, a Davos, l'esempio di Macron e della cancelliera Merkel.
    Un uomo pubblico dovrebbe sempre stare attento nell'esibire la lingua straniera, anche quando la conosce bene. Per esempio, Macron: come ho detto, il suo inglese è splendido. Tuttavia, in visita in Australia, è scivolato su di un complimento alla moglie del premier locale: ha detto che la signora era una delicious wife. In francese "une femme délicieuse" è un bel complimento, in inglese lo si dice solo delle cose che si mangiano. Dunque: attenti, con l'inglese. Uno scivolone è sempre possibile.

    [Sull'incidente di Macron si vedano gli articoli pubblicati su "The Guardian" e "Mashable" indicati sopra]

    Qui non si giudica la politica dei vari presidenti del consiglio ma l'uso della lingua italiana negli incontri ufficiali internazionali. Si riesce a stare sul pezzo?

    Il vero divulgatore dell'italiano nel mondo, in questo momento, sembra papa Francesco, che, da vescovo di Roma, parla la lingua italiana in quasi tutti i luoghi esteri dove si reca, sia nelle omelie, sia nei discorsi ufficiali. Poi magari per i vari "libri d'oro" della memoria inforca gli occhiali e copia dal bigliettino, nella lingua locale.

    Le annotazioni di Marazzini sull'uso dell'italiano di Conte non si possono assolutamente svincolare dai contenuti veicolati, dal significato (nullo) della presenza politica di Conte negli Stati Uniti. Non mi posso certo rallegrare di questo atto di politica linguistica implicita, ma anzi mi addoloro del fatto che la più alta rappresentanza politica del governo italiano sia appannaggio del prof.Conte.

    Conte dichiara di sapere l'inglese e di avere studiato in America e poi dice frasi sgrammaticate come “…I don’t want to renounce to privilege for speaking in my beautiful language”?
    Se ha parlato in italiano non è per un "atto di politica linguistica implicita che ha restituito all’italiano la dignità di una lingua legittima" ma per non attirare l'attenzione sul suo inglese imbarazzante.

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