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G. Fanello Marcucci, C. Marazzini, G. Di Leo e N. Maraschio
Il presidente Claudio Marazzini con Claudia Arletti e Mario Calabresi
Da sinistra: Benedetti, Givone, Benintende, Maraschio, Ravenni, Lavia
XII Convegno ASLI

Internazionalizzazione sì, ma non contro l’italiano


Marzo 2017

Il presidente della Crusca, Claudio Marazzini:

 

A proposito di una serie di ingiuste critiche alla sentenza n. 42 della Corte costituzionale

 

La sentenza n. 42/2017 della Corte Costituzionale ha suscitato un dibattito che sembra avere come principale caratteristica il travisamento dei dati. La questione investe aspetti giuridici, sui quali lascio la parola al costituzionalista Paolo Caretti, nella colonna a fianco.

Mi limito a questioni di politica linguistica. Si legga la parte finale della sentenza in questione:

 

Solo con un eccesso di formalismo e di severità potrebbe affermarsi che […] i principî costituzionali di cui agli artt. 3, 6, 33 e 34 Cost. impongano agli atenei di erogarli [i corsi in inglese] a condizione che ve ne sia uno corrispondente in lingua italiana. È ragionevole invece che, in considerazione delle peculiarità e delle specificità dei singoli insegnamenti, le università possano, nell’ambito della propria autonomia, scegliere di attivarli anche esclusivamente in lingua straniera. Va da sé che, perché questa facoltà offerta dal legislatore non diventi elusiva dei principî costituzionali, gli atenei debbono farvi ricorso secondo ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza, così da garantire pur sempre una complessiva offerta formativa che sia rispettosa del primato della lingua italiana, così come del principio d’eguaglianza, del diritto all’istruzione e della libertà d’insegnamento.

 

Alcuni critici della sentenza si sono smarriti prima di arrivare alla parte finale qui riportata. Si devono essere arrestati troppo presto, annoiati dal lungo riepilogo dei fatti, prima e dopo la sentenza di primo grado del Tar di Lombardia (che - è bene rammentarlo - aveva dato ragione ai ricorrenti). Se avessero letto e inteso questa parte della sentenza, ora non si strapperebbero i capelli per i presunti “vincoli” posti all’Università italiana, di qui in avanti (secondo loro) “meno libera” nelle scelte e nell’impostazione dei programmi di internazionalizzazione.

Nessuno impedisce invece alle università di attivare i corsi in inglese, anche se la Corte invita a farlo con un po’ di equilibrio e in maniera non sconsiderata. Questo è il punto fondamentale: qualche critico della sentenza ha avuto il coraggio, anzi direi l’impudenza, di ribaltare artatamente il discorso sulla “libertà linguistica”, attribuendo proprio alla sentenza la limitazione di tale libertà. Questo davvero è un modo di cambiare le carte in tavola: questa sentenza, così come la prima del TAR di Lombardia, è nata come risposta a un indebito quanto insensato tentativo di imposizione totale, autoritaria e forzata, della lingua inglese, con esplicita e autolesionistica abolizione dell’italiano. Questa sentenza difende dunque la nostra libertà, il diritto di scelta insito nella libertà didattica, contro un atto di autoritarismo linguistico.

Altra confusione perniciosa: molte voci si levano per spiegarci che l’inglese è la lingua internazionale della scienza. La spiegazione si svolge con tutta la banalità del luogo comune  (anche se ora qualcuno solleva dubbi su di una realtà che fino a ieri appariva lapalissiana: si legga l’intervento di Michele Gazzola in questo stesso sito; senza dimenticare il libro di una scienziata, biologa e al tempo stesso nostra accademica - sì: abbiamo tra noi anche scienziati - : Maria Luisa Villa, L’inglese non basta, Milano, Bruno Mondadori, 2013). La sentenza della Corte non richiede che ci addentriamo nell’esame del problema (trattandosi di cosa assolutamente diversa, come vedremo tra poco), e non è necessario che si vadano a cercare i ridicoli eccessi che si sono messi in atto invocando l’inglese come unica lingua di un (presunto) meraviglioso mondo globalizzato. Tralasciamo l’altro topos, la patetica esaltazione del latino nell’università del Medioevo: l’università medievale appare ora come il sogno più bello, secondo il pensiero di molti fautori del progresso, dimentichi che l’università moderna non discende in maniera diretta (per fortuna) da quella medievale, e che la sua capacità di creare è andata di pari passo con lo sviluppo delle lingue nazionali.

Tuttavia la lingua della scienza non c’entra per nulla con questa sentenza: la Corte non ha mai discusso quale sia o debba essere la lingua della scienza. Ha discusso però (e lo ha fatto molto bene) quale debba essere la lingua della didattica. La didattica non è la scienza. La didattica consiste nelle lezioni che si tengono all’università allo scopo di formare operatori delle varie discipline. Non tutti costoro diventeranno ricercatori e andranno a lavorare nello spazio rarefatto e isolato dei grandi laboratori internazionali. È vero che siamo ormai abituati a spedire all’estero centinaia di migliaia di laureati (e l’abbiamo fatto anche senza i corsi in inglese, invocati, per la verità, a quanto si sente continuamente, per fare il contrario, cioè per “attrarre”…); ma molti laureati non andranno a vivere all’estero (così speriamo). Qualcuno rimarrà anche da noi, per nostra fortuna: e quelli che rimarranno tra la nostra gente dovranno parlare e spiegare in italiano a italiani le cose che hanno imparato, utili per la nostra società ancora rozzamente arcaica e ascientifica (si veda l’impressionante p. 106 della Storia linguistica dell’Italia repubblicana di T. De Mauro, Bari, Laterza, 2014),e comunque nel pieno diritto di non essere estromessa dal sapere. Dovranno parlare italiano nella medicina, nell’architettura, nell’ingegneria, nella tecnica edilizia, nella scienza dei materiali, nell’agricoltura e viticultura, nell’igiene, nella veterinaria, nelle scienze sociali, nella didattica (compresa quella delle lingue), e persino nell’informatica. La farsa dell’inglese tra italiani (per far finta di essere internazionali a tempo pieno quando non lo si è, o lo si è ben poco) non serve per diffondere conoscenza, non serve per formare professionisti migliori, anzi porta quasi sempre a un calo della qualità (di ciò è stata data persino la dimostrazione scientifica, riportata nel libro già citato di M.L. Villa).

È anche giunto il momento di abbandonare, ogni qual volta si toccano questi argomenti, l’abusato quanto distorto paragone con la Finlandia e con l’Olanda (che, ahimè, ritrovo persino nell’intervento di un luminare come Sabino Cassese, in un’intervista su “Il Foglio”, 7/3/17). Questi paesi, stimabilissimi nelle loro scelte, sono costretti inevitabilmente a un uso dell’inglese più largo del nostro; non per questo (siamo d’accordo su ciò) hanno perso il senso della propria identità nazionale: si veda, per l’Olanda, la forte reazione nei confronti delle pretese della Turchia, ora anche premiata dal recentissimo risultato elettorale. Sta di fatto, però, che un paragone più realistico richiede per l’Italia un confronto totalmente diverso, non con la Finlandia e l’Olanda, ma con la politica linguistica di altre nazioni. Il raffronto, infatti, per essere realistico, deve tener conto del numero degli abitanti: la Germania ne ha oltre 80 milioni, la Francia 66 milioni, l’Italia 59 milioni, la Spagna 46 milioni, l’Olanda 16 milioni, la Finlandia 5 milioni e mezzo. Si rifletta sul fatto che la Lombardia da sola ha 10 milioni di abitanti, e Lazio, Campania, Sicilia e Veneto viaggiano attorno ai 5 milioni di abitanti: ciascuna di queste regioni è dunque paragonabile alla Finlandia. La politica linguistica di Sicilia, Campania, Veneto potrà essere eventualmente raffrontata - se si vuole - a quella della Finlandia, a beneficio di chi ama questi paragoni: nessuno, infatti, vuole mettersi a far lezione nell’università in lingua siciliana, napoletana o veneta; cioè, appunto, nelle lingue con cinque milioni di parlanti. Ma stiamo discutendo d’altro, d’italiano, cioè di una delle quattro grandi lingue di cultura dell’Europa, con circa 60 milioni di parlanti, lingua ufficiale anche in Svizzera, e ricca di due milioni di persone che la studiano all’estero, quarta lingua più studiata al mondo, secondo i dati diffusi dal MAECI.

Converrà dunque aver chiaro una volta per tutte che una nazione la quale conta tanti abitanti quanti quelli di una regione italiana non può avere la stessa politica linguistica che si raccomanda invece per una delle nazioni europee che superano i 50 milioni di abitanti. Non a caso, la Germania, nel rivendicare il ruolo del tedesco tra le lingue di lavoro dell’Unione, ha sempre fatto valere il criterio del numero. La Spagna, per parte sua ha sempre puntato sugli ispanofoni nel mondo, calcolabili attorno a 350.000.000. Un po’ di attenzione al mondo reale, sicuramente plurilingue, ben diverso dalle università medievali dove si leggeva noiosamente la lezione in latino, gioverebbe a intendere meglio le esigenze del nostro tempo, al di fuori dagli stereotipi, tanto per non cadere dalle nuvole di fronte a eventi come la brexit.

Converrà anche smettere di assumere un atteggiamento di presuntuosa sufficienza ogni volta che si parla della cura rispettosa della propria lingua perseguita dai francesi, con attiva partecipazione della loro Académie. Un esame della politica economica espansiva della Francia, ad esempio nel settore della grande distribuzione, mostra che i Francesi se la cavano benissimo a livello internazionale, anche se guardano alla propria lingua con un sentimento intenso di affetto e fiducia. E guardare alla propria lingua con affetto e fiducia, non vuol dire non imparare l’inglese. Infatti mediamente i francesi lo parlano meglio degli italiani. Tra le due cose, amore per la propria lingua e conoscenza delle lingue straniere, non c’è alcuna contraddizione.

È dunque scandaloso, a parer mio, che qualcuno si sia scandalizzato perché la suprema Corte ha messo per iscritto una cosa che dovremmo pensar tutti, e cioè che per nessuna ragione si può ridurre la lingua italiana “a una posizione marginale e subordinata, obliterando quella funzione, che le è propria, di vettore della storia e dell’identità della comunità nazionale, nonché il suo essere, di per sé, patrimonio culturale da preservare e valorizzare”.

Concordiamo con Michele Ainis (“la Repubblica”, 8/3/17, p. 33) quando ribadisce che l’italiano costituisce un bene culturale in sé, e negarlo significa solo mostrare apertamente che molti italiani hanno “un’identità debole, sfocata”, che la nostra storia è scandita dal localismo, più che dal nazionalismo. La Corte, parlandoci di “ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza”, cioè invocando il senso della misura (che nel paese del massimalismo è stato subito interpretato come ambiguità), ci ha dato un segnale: può essere l’occasione per un grande percorso che aiuti a elaborare una politica linguistica moderna, capace di limitare in nome di principi comuni l’autonomia sconsiderata di atenei travolti non dall’ansia dell’internazionalizzazione (come vogliono farci credere), ma ridotti ai minimi termini da defatiganti e artificiose gare di concorrenza pseudo-aziendale in cui si consumano le poche risorse che restano, e che potrebbero essere meglio impiegate diversamente; ci serve insomma una politica capace di valorizzare l’italiano, lingua materna, lingua di avvio, con il plurilinguismo come punto d’arrivo, ricordando che l’inglese, da solo, non basta.

Il parere del giurista
Paolo Caretti

 

La Corte costituzionale e l’italiano come lingua ufficiale della Repubblica

 

Con la sentenza n. 42/2017, la Corte costituzionale avvia a soluzione una lunga vicenda giudiziaria che ha preso avvio nel 2012 dalla decisione del Politecnico di Milano di predisporre un’offerta formativa nella quale i corsi delle lauree specialistiche e di dottorato fossero tenuti esclusivamente in lingua inglese, in nome della direttiva all’internazionalizzazione delle nostre Università, contenuta nella c.d. legge Gelmini (art. 2, c.2, lett.l, legge n. 240/2010). La Corte dice ora al giudice, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale di questa disposizione (il Consiglio di Stato), che la legge Gelmini non può costituire il fondamento di decisioni come quelle assunte dal Politecnico milanese, pena la violazione di una serie di principi costituzionali. Pur riconoscendo l’utilità di una direttiva volta all’internazionalizzazione dei nostri Atenei, tale direttiva può essere perseguita, dice la Corte, con una pluralità di mezzi, purché rispettosi di tutti i principi costituzionali che riguardano l’istruzione: dal principio di eguaglianza (art. 3), al diritto alla parità di accesso all’istruzione fino ai suoi gradi più alti (art. 34, c.3), alla libertà di insegnamento (art. 33, c.1). Insomma la Corte dice al giudice: l’internazionalizzazione va bene, ma non può essere realizzata contro la Costituzione. Un’affermazione che in sé appare ovvia in un sistema costituzionale come il nostro che riconosce alla Carta la supremazia su ogni altra fonte normativa, ivi compresa la legge, ma che ovvia evidentemente non è apparsa all’organo di governo del Politecnico di Milano. Tale affermazione dunque assume un particolare rilievo al fine di evitare che altri Atenei adottino decisioni analoghe a quelle del Politecnico; decisioni che, dopo il pronunciamento della Corte, non potranno che essere dichiarate illegittime dal massimo organo di giustizia amministrativa.

Ma c’è un aspetto di questa importante pronuncia della Corte che va al di là della specifica questione affrontata e che credo meriti di essere sottolineato con particolare forza. Esso riguarda il riferimento costante che si fa nella motivazione al valore costituzionale del principio dell’ufficialità della lingua italiana. Non che siano mancate in altre sentenze accenni a questo principio (penso alla sent. n. 28/1982 o alla più recente n.159/2009), ma si è sempre trattato o di accenni fugaci a un dato inteso come scontato (ricavabile “a contrario” dall’art. 6 Cost. che tutela le “minoranze” linguistiche) e non meritevole di alcun serio approfondimento o di accenni alla codificazione di quel principio da parte di una legge ordinaria come la legge n.482/1999, che disciplina varie forme di tutela delle minoranze linguistiche storiche.

Questa è dunque la prima volta che la Corte non solo  radica con chiarezza nella Costituzione quel principio, ma avvia anche un‘opera di definizione del suo contenuto e della sua portata normativa, alla luce di altri fondamentali principi costituzionali; la Corte mostra così di avere ben presente l’esigenza di sfrondare oggi quel principio da ogni anacronistica venatura nazionalistica, per ricondurne il significato e gli effetti concreti alle sfide che oggi la lingua italiana (come ogni altra lingua nazionale) si trova ad affrontare in un mondo nel quale l’onda lunga della globalizzazione investe direttamente il principale strumento di comunicazione sociale, ossia la lingua. “La progressiva integrazione sovranazionale degli ordinamenti e l’erosione dei confini nazionali determinati dalla globalizzazione”, afferma la Corte, “possono insidiare senz’altro, sotto molteplici profili, la funzione della lingua italiana: il plurilinguismo della società contemporanea, l’uso d’ una specifica lingua in determinati ambiti del sapere umano, la diffusione a livello globale d’una o più lingue sono tutti fenomeni che, ormai penetrati nella vita dell’ordinamento costituzionale, affiancano la lingua nazionale nei più diversi campi. Tali fenomeni tuttavia non debbono costringere quest’ultima in una posizione di marginalità: al contrario, e anzi proprio in virtù della loro emersione, il primato della lingua italiana non solo è costituzionalmente indefettibile, bensì – lungi dall’essere una formale difesa di un retaggio del passato, inidonea a cogliere i mutamenti della modernità – diventa ancor più decisivo per la perdurante trasmissione del patrimonio storico e dell’identità della Repubblica, oltre che garanzia di salvaguardia e valorizzazione dell’italiano come bene culturale in sé”. Un’ufficialità della lingua italiana come principio costituzionale  “indefettibile”, che assume pieno valore e funzione alla luce dei problemi dell’oggi e del domani. Ciò vale per il rapporto tra italiano e altre lingue nel settore dell’istruzione (è il caso deciso dalla Corte), ma vale anche per la tutela dell’italiano da quella sotterranea emarginazione cui esso è soggetto a causa di alcune prassi adottate dalle istituzioni europee e, in positivo, vale per la promozione e valorizzazione della conoscenza della nostra lingua non solo in Italia (basti pensare all’importanza dell’elemento linguistico nel processo di integrazione dei migranti ) ma anche all’estero, dove, come è noto, l’italiano è una delle lingue più amate e studiate. Insomma, con quelle affermazioni, mi pare che la Corte abbia dimostrato piena consapevolezza di quella che alcuni chiamano la nuova “questione linguistica”, invitando, sia pure indirettamente, il legislatore a mettere in campo un’altrettanto consapevole e articolata politica di tutela e valorizzazione della lingua italiana in grado di metterla al riparo dal rischio di diventare, inesorabilmente, essa stessa lingua minoritaria.

C’è tuttavia da chiedersi se questi stimoli, per quanto autorevoli, siano davvero sufficienti a orientare i futuri comportamenti dei decisori politici o se non vadano accompagnati e rafforzati su un altro piano. Mi chiedo cioè se, anche sull’onda di questa pronuncia, non valga la pena di ripercorrere la strada già battuta in passato, ma senza successo, da alcuni soggetti autorevoli e anche dall’Accademia della Crusca, di proporre l’esplicitazione in Costituzione del principio dell’ufficialità della lingua italiana. Se, infatti, una pronuncia della Corte può avere qualche effetto nei confronti di un legislatore che abbia occhi e orecchi pronti a raccoglierne i moniti, ben altro effetto di stimolo avrebbe questo principio ove inserito come primo comma dell’attuale art.6 secondo una formulazione che potrebbe essere la seguente: “La Repubblica riconosce l’italiano come lingua ufficiale e ne promuove la conoscenza in Italia e all’estero. Apposite norme tutelano le lingue minoritarie”. Non si tratterebbe solo di colmare quella che già i primi commentatori di questa disposizione (penso a Piero Fiorelli) avevano lamentato come una lacuna del testo costituzionale, ma di predisporre un saldo fondamento costituzionale a un impegno dei poteri pubblici in un settore cosi delicato e vitale che oggi presenta profili problematici del tutto inediti rispetto a quando la Carta fu approvata nel 1948. Ma questo è un altro discorso. 

 

  • Ulteriori informazioni e altri interventi sul dibattito intorno alla questione dell'insegnamento universitario nella sola lingua inglese sono raccolte nella sezione "Notizie" di questo sito

    Intervento conclusivo di Claudio Marazzini
    Ho letto gli interventi posti a commento del Tema del mese che ora si chiude, e non ho trovato voci dissenzienti. Ringrazio coloro che sono intervenuti. Sento ancor più forte la responsabilità di suscitare la discussione e di far circolare queste idee nella società italiana. In quest’occasione non si è manifestato dissenso, ma ciò non vuol dire che il dissenso non ci sia. Non è escluso che aggressioni inconsulte all’italiano vengano nuovamente messe in atto quando meno ce l’aspettiamo. Il silenzio (almeno temporaneo) di chi sfrutta ogni occasione per ridimensionare e umiliare la posizione dell’italiano fa comunque piacere, anche se la partita non è ancora vinta. Attendiamo con maggiore fiducia, intanto, la sentenza del Consiglio di Stato.

    Intervento conclusivo di Paolo Caretti
    Un dibattito tutt’altro che concluso

    Gli interventi pubblicati sul sito dell’Accademia sul tema del mese sono sostanzialmente concordi con quanto sostenuto nelle due tracce, di Claudio Marazzini e mia, che hanno dato il via al dibattito. Sappiamo bene, tuttavia, che su questo argomento le posizioni sono molto variegate. Tanto per rimanere nel campo giuridico, vorrei segnalare che, a differenza del sottoscritto, non pochi giuristi hanno espresso valutazioni critiche sulla sentenza della Corte costituzionale n. 42 di quest’anno, rea di aver abbracciato una tesi a loro avviso passatista che impedirebbe la modernizzazione dei nostri studi universitari. Ma credo che posizioni analoghe si rinvengano anche in altri settori. Non voglio qui riprendere le ragioni per le quali, a mio parere, queste posizioni mi paiono da respingere. Mi limito a tre sintetiche considerazioni sulla scia di quanto affermato dal giudice delle leggi. La prima: d’ora in poi nessun Ateneo pubblico potrà istituire interi corsi di laurea esclusivamente in una lingua diversa dall’italiano, né potrà istituire corsi che portano al conseguimento di un titolo di studio nei quali l’insegnamento in lingua italiana occupi uno spazio marginale a favore dell’utilizzazione di altre lingue: questo vuol dire in parole povere che l’inglese è ben accetto nei corsi universitari, purché non si voglia farne una lingua sostitutiva e non integrativa dell’insegnamento universitario. La seconda: fermi questi paletti, gli Atenei, nell’esercizio della loro autonomia, potranno organizzare la loro offerta didattica utilizzando i margini di flessibilità che la Corte ha volutamente lasciato aperti, quando ha richiamato i criteri di ragionevolezza e proporzionalità come linee guida nel rapporto tra italiano e altre lingue nell’insegnamento universitario. La terza: la vicenda che ha dato origine alla sentenza della Corte costituzionale è in fondo una piccola vicenda, ma ha avuto il merito di portare all’attenzione non solo dei giuristi ma di tutta l’opinione pubblica il problema del ruolo delle lingue nazionali nel mondo globalizzato che presenta molteplici aspetti sui quali è opportuno che la riflessione venga approfondita. Pochi giorni fa è stato pubblicato un libro, a cura di Maria Agostina Cabiddu e con prefazione di Francesco Sabatini (L’italiano alla prova dell’internazionalizzazione, Milano, Guerini e associati, 2017), che può offrire ulteriori spunti in questa direzione. Per questo penso che il dibattito stimolato da questa vicenda sia appena all’inizio e mi auguro che prosegua proficuamente anche nel prossimo futuro.

    Come docente iniziatore della "rivolta" dei docenti del Politecnico di Milano contro l'assurda decisione dell'Ateneo e soprattutto del suo ex.rettore, e come presidente del Comitato Madre Lingua -costituito da colleghi del Politecnico- il mio scopo finale era proprio quello di accedere alla Corte Costituzionale per fermare l'endemica diffusione dell'inglese nelle nostre università. E sono soddisfatto di quanto ottenuto e del vasto dibattito in corso.

    Condivido pienamente le osservazioni di Paolo Caretti e Claudio Marazzini sulla sentenza interpretativa di rigetto n.42/2017 della Corte Costituzionale.
    Molto convincenti mi sembrano, inoltre, gli argomenti sui quali si fonda l'idea di Paolo Caretti d'inserire nell'art.6 della Costituzione il principio dell'ufficialità della lingua italiana.

    Come presidente dell'Aici (Associazione delle Istituzioni Culturali Italiane) saluto positivamente la sentenza della Corte Costituzionale e condivido i comment di Paolo Caretti e Claudio Marazzini.
    Non la conoscevamo quando abbiamo deciso di chiedere al Presidente Marazzini, di tenere la lectio magistralis in occasione della nostra assemblea annuale a Roma il 20 aprile prossimo (ore 15.30) sala Zuccari del senato a Palazzo Giustiniani).
    Ma evidentemente i nostri pensieri si sono incrociati visto che il tema della lezione sarà. "Italiano oggi e domani:lingua e cultura nella nazione inernazionale"

    La sentenza interpretativa di rigetto 42/2017 della Consulta si rileva di particolare interesse non solo in relazione al caso concreto del Politecnico di Milano e alla possibilità per le università di istituire corsi di studio interamente in lingua straniera, ma soprattutto perché statuisce su questioni di politica linguistica e di tutela della lingua italiana. La Corte Costituzionale ha sentito difatti, per la prima volta, il bisogno di ribadire con forza quel principio di «ufficialità, e quindi primazia» della lingua italiana che già più volte aveva toccato nelle sue pronunce ma su cui non aveva mai insistito con tanta enfasi e chiarezza. Ed è proprio questo che deve indurre a una riflessione: se la Consulta ha ritenuto necessario ribadire con tale forza «il primato della lingua italiana», primato che sembrava così scontato nel 1948 da far sì che non venisse nemmeno incluso tra i Principi fondamentali della Carta costituzionale (onde evitare anche facili e vicini echi fascisti), è perché oggi tale principio non può più darsi per scontato, anzi. La costante spinta in direzione di un’internalizzazione che permetta all’Italia di essere competitiva a livello sovranazionale ci fa talvolta “dimenticare” alcuni dei valori fondanti della nostra Repubblica, come la lingua italiana. Lingua che, invece di essere vista come un ostacolo all’internazionalizzazione e alla competitività del Paese, dovrebbe essere utilizzata, al contrario, come prezioso e insostituibile strumento per aumentare la nostra attrattività all’estero. Ed è anche questo che forse la Corte ci vuole ricordare quando afferma che «il primato della lingua italiana non solo è costituzionalmente indefettibile, bensì – lungi dall’essere una formale difesa di un retaggio del passato, inidonea a cogliere i mutamenti della modernità – diventa ancor più decisivo per la perdurante trasmissione del patrimonio storico e dell’identità della Repubblica, oltre che garanzia di salvaguardia e di valorizzazione dell’italiano come bene culturale in sé».
    Come suggeriscono, tra gli altri, Claudio Marazzini, Nicoletta Maraschio e Paolo Caretti, efficaci e mirate politiche di valorizzazione dell’italiano fuori e dentro i nostri confini gioverebbero probabilmente di più alla competitività e all’attrattività dell’Italia all’estero che qualche corso di studio impartito esclusivamente in inglese (che, oltre a impedire agli studenti italiani l’acquisizione della terminologia tecnica nella lingua materna, attrarrebbe solo in prima istanza studenti stranieri in Italia, in quanto questi, non conoscendo la lingua nazionale, difficilmente riuscirebbero poi a spendere il loro titolo all’interno dei confini nazionali).
    Attivare corsi di studio interamente in inglese, quindi, oltre a violare gli articoli 3, 6, 33 comma 1 e 34 comma 3 della Costituzione, non sarebbe forse nemmeno una politica vincente per l’Italia, quanto potrebbe essere invece la valorizzazione della lingua nazionale («vettore della cultura e della tradizione immanenti nella comunità nazionale», come ribadisce la Consulta), a fianco, si intende, di politiche volte all’acquisizione di ottime competenze anche nelle lingue straniere (come potrebbe essere, ad esempio, il potenziamento dei corsi di inglese professionale nelle università). E se siamo arrivati a un punto in cui abbiamo bisogno che sia la Corte Costituzionale a ricordarci che l’italiano è la lingua ufficiale della nostra Repubblica e che in quanto tale va tutelata, allora forse è meglio, come suggerisce da ultimo Paolo Caretti, che una riforma costituzionale intervenga a introdurre esplicitamente tale principio nella Carta costituzionale, aggiungendo un primo comma all’art. 6 della Costituzione.

    Francesca Fusco

    Un lingua per orientarsi nel mondo

    «[…] bisogna pur ch’io lo dica, quantunque con mio grande rammarico, ei pare che la lingua Italiana sia più coltivata fuor dell’Italia che nell’Italia medesima». Così Angelo Vergani (A new and complete italian grammar, Livorno 1828, p. 10). Sono passati quasi centonovant’anni e, nonostante nel frattempo sia avvenuta la faticosa, straordinaria conquista di una lingua nazionale, quell’affermazione potrebbe essere riproposta pari pari. Fiumi di parole si spendono tutti i giorni per celebrare il made in Italy ma, accanto a design, moda, cibo e vino, raramente troviamo la bellezza delle città e dei paesaggi (quel che resiste) e mai un cenno alla lingua. Eppure ci sarebbero molte ragioni, storiche e attuali, per mostrare e valorizzare le connessioni e le possibili sinergie tra tutti questi fatti.
    Quella che è «una delle più belle, e più armoniose fra le moderne lingue Europee» (sempre Vergani) non sembra avere in patria l’attenzione che merita; per non dire del trattamento che le è riservato dalle classi dirigenti e dai media del Bel Paese: autolesionismo e provincialismo vanno a braccetto, nonostante l’italiano sia al quarto posto tra le lingue più studiate al mondo. Un risultato, questo, che è tanto più apprezzabile in quanto in molta parte attribuibile alla forza della cultura e del saper fare (di cui è parte il made in Italy) e che si configura come una resistenza alla potenza espressa dall’inglese-americano grazie al potere politico-economico.
    Certo: in questa potenza conta non poco la primazia conquistata come lingua della comunicazione scientifica in molti campi. Ma riconoscere questo fatto non può tradursi automaticamente in una resa di Davide a Golia, come fanno coloro che, nell’intento lodevole di difendere il prestigio dell’università italiana, ritengono che la strada maestra sia l’adozione dell’inglese come lingua esclusiva degli atenei.
    Più che di una strada maestra si tratta, in realtà, di una scorciatoia per scalare le classifiche internazionali. Ma, a parte l’illusorietà circa l’efficacia di simili espedienti, è improcrastinabile un bilancio costi e benefici: l’inseguimento in tutti i modi delle immatricolazioni dall’estero ha come conseguenza che il sistema universitario pubblico è investito da fiumi di studenti in entrata e in uscita con il risultato di carichi impropri sul contribuente italiano e contropartite per lo più risibili.
    Ma c’è dell’altro. Si fa un tutt’uno di due sfere – la ricerca e la formazione – che rispondono a esigenze specifiche (e che semmai andrebbero interrelate assai più di quanto non si faccia). La formazione, per stare all’essenziale, non può non porsi un orizzonte più ampio di quello della trasmissione di competenze specifiche. Tanto più in una fase di esasperazione della supremazia della tecnica, occorre attrezzare i giovani sul terreno dei valori etici e civili. E questo passa attraverso la loro capacità di orientarsi nel mondo e di produrre pensiero e conoscenza: un orizzonte di questioni che chiede ai soggetti in formazione il massimo controllo della lingua, altro che il consegnarsi alla povertà di un inglese veicolare.

    Giancarlo Consonni

    Economia in costante peggioramento, assenza totale di orgoglio nazionale, mancanza di attenzione (e perdita di prestigio) dell'arte e della cultura in generale... Tutti elementi che non fanno ben sperare per il futuro della lingua italiana.
    In questo caso si è scampato sicuramente un grande pericolo, perché il messaggio percepito avrebbe avuto, a lungo termine, conseguenze disastrose. Ma ci saranno altri assalti; è inevitabile, a meno che il nostro Paese non trovi modo di ritrovare orgoglio e prestigio.
    E forse bisognerebbe anche giocare un po' più in attacco, e trovare dei modi per promuovere l'italiano (anche in Italia!). Io vedo sempre, in chi dovrebbe occuparsi di tale compito, un atteggiamento elitario, distaccato e qualche volta anche parruccone. Ma forse è un problema mio.

    La sentenza della Corte Costituzionale appare apprezzabile per la parte in cui raccomanda agli Atenei "ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza" nell'uso della lingua inglese in ambito didattico. In particolare, concordo con l'esigenza di rispettare, nell'offerta formativa, il primato della lingua italiana, il principio di eguaglianza, il diritto all'istruzione, la libertà d'insegnamento. Effettivamente, a proposito del diritto all'istruzione, nasce il sospetto che possa risultare più alto il numero degli studenti italiani dissuasi dalla obbligatorietà di padroneggiare l'inglese, rispetto al numero degli studenti stranieri attratti dall'uso esclusivo di questa lingua.
    Tuttavia: che cosa significano in concreto i termini "ragionevolezza", "proporzionalità", "adeguatezza"? In particolare: che cosa s'intende per "proporzionalità" se la medesima sentenza esclude che i principi costituzionali siano in grado di imporre che i corsi in inglese debbano essere affiancati da corsi equivalenti in italiano?
    Ha ragione Paolo Caretti quando si chiede se gli stimoli della Corte Costituzionale siano sufficienti o se, piuttosto, non sarebbe opportuno rivedere l'art. 6 della Costituzione, affermando esplicitamente l'uso della lingua italiana (fatta salva la tutela delle lingue minoritarie) in tutte le sedi pubbliche del territorio italiano.

    La lingua è storia, cultura, arte, economia, identità e siccome sono gli uomini - e non l'Uomo - ad abitare la Terra, siamo per il plurilinguismo e per la salvaguardia della biodiversità linguistica. Per questo non ci piace la monocultura dominante, di cui il Basic English è espressione.

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      La discussione è aperta nella sezione "Il Tema".

    • Premio Tramontano 2019

      Pubblicato l'elenco dei candidati ammessi alla prova. L'elenco è consultabile qui.

    • Lessicografia della Crusca in rete: possibili problemi di accesso

      Nei prossimi giorni, a causa di interventi tecnici, la piattaforma lessicografia.it potrebbe non essere sempre accessibile. Ci scusiamo per gli eventuali disagi causati agli utenti.